Top 5 del mese: 4 cose belle e una anche no – giugno 2019

Uè, uè: gli effetti di Gomorra si fanno sentire anche su di me! Ho fatto una sceneggiata, ho impartito il mio perdono, ho colto "la scianza". Più Napoli per tutti!

Indice

1° cosa bella – la bustodia

Sempre con me, anche al mare!

Fino a un mese fa il mio portatile viaggiava con me in uno zaino imbottito fattapposta, ma non fattaposta abbastanza (secondo me) per scongiurare il rischio che prendesse dei colpi potenzialmente fatali. Non volevo comprare una borsa da computer, perché poi insiste su una spalla sola e perché le borse da computer sono brutte e pesanti.

Così ho pensato di fare una specie di federa di gommapiuma leggera per tenere il lap-top in qualsiasi tipo di borsa, zaino o valigia; l’idea era di unire i lati con della colla.

Non sarebbe stato certo un oggetto elegante, anzi sarebbe stato disperatamente brutto; ma nessuno lo avrebbe visto, avrebbe vissuto nello zaino, dove non avrebbe potuto offendere lo sguardo di nessuno.

Poi mio marito ha avuto l’idea di ricavare questa custodia a forma di busta da del neoprene avanzato da non so cosa, e da bravo velista ha pure eseguito una bellissima cucitura a contrasto.

Adesso il mio portatile è perfettamente protetto, entra ed esce velocemente dalla borsa, e io ho una bustodia custom made che chiede a gran voce di essere brevettata e mostrata al mondo intero!

Ne vado molto orgogliosa 🙂

2° cosa bella: chi di verde e giallo si veste, di sua beltà si fida

Quando lo scorso aprile durante la fuitina in Provenza ho fatto vedere su Instagram che avevo comprato un vestito giallo – anzi, il mio primo vestito giallo! – il 30% chi seguiva le Stories decretò che il giallo su una bionda non era una buona idea.

È quello che ho sempre pensato anche io, come una legge scritta nella pietra ai tempi in cui i cespugli si infiammavano ed elargivano comandamenti; ciononostante, negli ultimi anni ho maturato molta ammirazione per chi portava vestiti o accessori gialli, magari addirittura (ADDIRITTURA!) in colori acidi.

Soprattutto se del mio fototipo.

Ricordo Nicole Kidman e Cate Blanchett falcare red carpet e ritirare premi in abiti che facevano a pugni con il loro incarnato e i loro capelli, e uscirne vincitrici cazzutissime: in qualche modo le loro persone emergevano da quei tessuti teoricamente improbabili valorizzate in un modo inarrivabile per un prugna, un petrolio o l’immarcescibile nero.

E a 49 anni, davanti a questo prendisole color del sole, ho sentito che ero finalmente pronta a esporre la mia vulnerabilità a un abito giallo e, in puro stile Brené Brown, a diventare una persona più felice per questo.

“Chi di verde e giallo si veste, di sua beltà si fida” dicevano le nostre nonne per castigare l’immodestia.

E io vi dirò una cosa: non mi sono mai guardata allo specchio, con questo vestito.

Ho paura di scoprire che mi sta malissimo, per cui preferisco non saperlo. Perché mi piace troppo sentirmi cazzutissima: molto più che sentirmi bella.

3° cosa bella: ho finito Gomorra!

Sono quattro anni che la gente di tutto il mondo guarda Gomorra e dice che è una delle serie più belle mai prodotte.

A me non piacciono le storie che parlano di cattivi, di degrado e assenza di giustizia, e che sono pure violente.

Quindi non mi è mai venuta la voglia di darle una chance, anche se ho molta stima per Roberto Saviano (mezza cieca, non ho letto un suo libro che sia uno: solo qualche articolo).

Finché quei bravi ragazzi di The Jackal non hanno fatto l’ennesimo video parodistico su Gomorra, e allora “la scianza” gliel’ho dovuta dare.

Tranquilli, dico cose generiche che possono seguire anche le persone che non hanno guardato le quattro stagioni della serie. Magari gli viene voglia di provare e di capire perché una persona sì e una no dice ammiccando “stai senza penziero” o “vien, vien, vien’t a piglià ‘o perdono”.

Ho fatto un binge-watch della prima, affascinata da tutto: ambienti, vocabolario, vicende e personaggi archetipici. Molto shakespeariana.

La seconda è stata quella in cui mi sono applicata a capire il napoletano (ho sempre guardato ogni puntata con i sottotitoli), e me ne sono innamorata come una pera cotta: ha le complicazioni linguistiche come un orologio artigianale ha quelle meccaniche. Meraviglioso.

La terza l’ho tirata avanti a fatica, ma la quarta… wow. Bravi gli sceneggiatori.

Aspetto la quinta!

E voi avete guardato Gomorra? Cosa pensiamo di Ciro, Patrizia e Genny?

4° cosa bella: la scianza

Questa è per chi è troppo giovane per aver visto “FFSS – Cioè che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?”, film del 1980 di Renzo Arbore, capolavoro del nonsense italiano con Luciano De Crescenzo, Benigni, Troisi e tutti i vip dell’epoca, da Pippo Baudo a Raffaella Carrà.

C’è un momento altissimo in cui una sosia di Sophia Loren appare in sogno alla protagonista Lucia dalla sua cella (all’epoca l’attrice era finita in carcere per motivi fiscali), e come una fata-madrina la esorta a cogliere ogni scianza per farsi strada nella vita…

“Lucì, ‘a scianza” è forse la mia citazione cinematografica preferita di sempre.

Una cosa che anche no – non aprite quella porta

Proprio questa porta.

Ho fatto una cosa non da me, e sono molto a disagio.

A inizio giugno nel paese di mio marito hanno fatto un raduno di barche d’epoca, e per celebrarlo è stato aperto un mercatino di bric-à-brac.

Un banchetto ha messo fuori in bel posto d’onore un olio celebrativo del duce a cavallo, con braccio alzato e la scritta DUX che appare divinamente nel cielo nuvoloso.

Quando l’ho visto sono rimasta così scioccata che sono andata oltre, mi si è chiuso lo stomaco e ho passato la giornata a pensare.

Moltissimo ho pensato ai ragazzi di questo paesino, non ricordo se fossero cinque o sei, ma che avevano solo tra i 16 e i 19 anni, sì. Erano più piccoli del mio Pietro quando i fascisti li presero per farsi dare informazioni sui partigiani, li portarono in città e li torturarono fino ad ucciderli.

La nonna di mio marito mi ha raccontato una volta sola di questo fatto, qualcosa mio suocero, altro mia suocera; così ho messo insieme un puzzle troppo doloroso per essere ripetuto dalla gente del paese.

Fuori dalla caserma si sentiva il rumore delle ossa rotte, e gli strilli dei ragazzi che chiamavano “Mamma, Mamma!”. Il famigerato prete fascista locale andava apposta in caserma in quelle occasioni, e suonava il piano per coprire le grida.

I cadaveri furono raccolti dai genitori che avevano tutti i capelli ritti, e incrostati di sangue: per mia suocera questo era il dettaglio più raccapricciante.

Un ragazzo fu preso in casa: il padre aprì la porta, e lo chiamò: “Giò, ti cercano”.

Qui tutti si chiamano Giò in segno di affetto: è corto per “gioia”.

La nonna di mio marito diventa una pietra davanti a questo dettaglio: il padre che apre la porta e consegna inconsapevolmente il figlio ai suoi carnefici. È l’abisso dell’orrore.

Del gruppo, uno solo si salvò e tornò a casa, per vivere con l’ombra del sospetto del collaborazionismo, senza più un amico in paese. Come l’ultimo bambino di Hamelin, a cui il Pifferaio ha rubato un’intera generazione.

Volevo andare a quel banchetto, e chiedere al venditore se sapeva cosa significasse esporre un ritratto di Mussolini nella piazza di un borgo che oltre ai morti in guerra ha perso cinque ragazzini torturati a morte per suo volere.

Ma il quadro non c’era più.

Forse era stato venduto. Forse qualcuno del posto era andato a dirgli dove metterselo, che qui non era il caso. Che poteva avere più fortuna a Sant’Anna o alle Fosse Ardeatine.

Il giorno dopo, quando la Shu si è messa a piangere alle 6 perché doveva andare in bagno e l’ho portata fuori, dopo aver raccolto una sacchettata di cacca molla, ho chiuso il sacchettino e l’ho infilato sotto il tendone di quel banchetto.

Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe visto o su cui avrebbe messo il piede il proprietario due ore dopo.

Me ne vergognerò sempre, è stato un atto codardo, che in più potrebbe non essere stato capito, e magari ricondotto al mistero di quelli che lasciano i sacchetti di cacca in giro invece di buttarli nei cassonetti.

Per tutta la giornata sono stata in ansia: volevo prenderne la responsabilità, pur sapendo che sono troppo emotiva per poter sostenere una conversazione di questo tipo senza piangere, e che avrei minato il mio messaggio alla base.

Quando la sera sono ripassata, il quadro c’era ancora: era stato solo spostato.

Ho fatto la cosa a me più congeniale: una sceneggiata napoletana, muta.

Mi sono fermata trasalendo, ho guardato il quadro, mi sono girata verso il venditore, ho ricurvavo in giù la bocca in segno di profonda disapprovazione, ho scosso la testa andandomene e dicendo piano “non ho parole”.

Sono certa di aver portato a segno il messaggio.

Anche perché il suo banco era due posti più in là di quello a cui ho lasciato il mio sacchettino di merda di cane.

Appendice: ‘o perdono

Nella mia fase di grande gasamento per la lingua partenopea ho tirato fuori un libro sulle locuzioni tipiche napoletane e che proprio a Napoli mi era stato regalato anni fa.

Avevo appena cominciato a rileggerlo, che la Shu se l’è mangiato.

Come i cani delle barzellette che mangiano i compiti, lei si è mangiata il libro che stavo studiando.

Ci sono rimasta proprio male, ma posso prendermela con un cane che non sa quello che fa?

Ho solo allargato le braccia e le ho detto: “vien, vien, vien’t a piglià ‘o perdono“.

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