1° cosa – è cominciato così, con Federico
Indice
- 1° cosa – è cominciato così, con Federico
- 2° cosa – La terza volta che sono annegata, mi sono ricordata delle altre due
- 3° cosa – i dati
- 4° cosa – la tesi
- 5° cosa – è finito così, con Federico
So che lo ricorderò sempre, quel momento.
Ero su un sentiero che avevo appena scoperto sul monte Muzzerone, era sabato mattina, c’era quel sole abbacinante di fine estate che si rifletteva sul mare; avevo appena fatto una foto allo scorcio della scogliera, vista tra le rocce e i lecci.
La Shu si era lanciata giù nella parte più scoscesa di quel nuovo percorso, e aspettandola ero passata ad Instagram. E nelle storie di un’amica c’era un annuncio: Federico, il marito di Elena, è uscito giovedì per escursione e non è più tornato. Bisogna trovarlo: chi può andare in Val Zoldana, chi c’era e può averlo visto?
Sono rimasta immobile con il telefono in mano: a volte le vicende delle altre persone ti colpiscono particolarmente per dei dettagli che nulla aggiungerebbero alla cruda realtà delle circostanze. Però, quei dettagli ti arrivano in faccia come una palata data di taglio.
Un marito che non torna (inimmaginabile). Si chiama Federico, il nome più bello del mondo (l’ho dato al mio primogenito). L’escursione da solo in montagna, atteso per pranzo (come me adesso). Sua moglie Elena fa il mio stesso lavoro (mi sa che abbiamo anche fatto un corso insieme).
Ho sbloccato il respiro, ho richiamato il cane e sono tornata indietro, invece di avventurarmi per un sentiero ripidissimo che non conoscevo.
Ci sono voluti 18 giorni e 900 persone più cani, droni ed elicotteri per trovare Federico.
Come migliaia di persone in tutta Italia, condividevo appelli e controllavo anche di notte se c’erano novità sul profilo di Elena e sui giornali del bellunese.
Mi sono immediatamente affezionata a lei, alla sua voce, ai suoi occhi grandissimi, alla dignità e alla correttezza con cui aggiornava amici ed estranei sulle ricerche. Mi sono riconosciuta nel suo bisogno di comunicare, sapendo che avrei fatto lo stesso.
E ho imparato moltissimo da Federico grazie a lei, perché Elena ha scelto di essere di servizio alle persone, anche in quel momento.
Elena, sappi che ora vado in montagna in modo diverso.
Prima di uscire, dico esattamente che percorso farò, e non mi concedo di cambiare idea senza avvertire.
Ho collegato il mio telefono a quello dei miei, per essere mappata in tempo reale.
Indosso qualcosa di sgargiante.
Ho un fischietto al collo (nato per chiamare il cane, ora ha un doppio uso).
Se il cane è al guinzaglio e fa uno scatto, lascio il guinzaglio.
Se il terreno è umido, mi fermo a liberare dal fango la suola delle scarpe.
Ieri, per la seconda volta in due mesi, ho visto una vipera. Quindi comprerò uno di quegli aspiratori di veleno e lo porterò sempre con me, come mio nonno portava il siero e una siringa di vetro in una schiscia di acciaio.
Il fatto che tu abbia scelto di condividere quello che è successo alla tua famiglia, e il modo in cui lo hai fatto, salverà molte vite. Ne sono sicura.
Grazie, Elena.
2° cosa – La terza volta che sono annegata, mi sono ricordata delle altre due
Quest’anno ho imparato a meditare, a fare il pane e ad andare in canoa. Sono il tipo di persona che valuta, soppesa e cataloga le sue esperienze con etichette riscrivibili, sempre alla ricerca di un nuovo punto di vista da cui osservare quello che mi succede.
Ma su queste tre novità non sembrava esserci margine per fare una tassonomia diversa da “tre cose belle che volevo fare da tantissimo tempo, a cui ho finalmente dato lo spazio mentale necessario e che hanno arricchito la mia vita”.
Finché non ho creduto di annegare.
Era l’ultima lezione, quella in cui dovevo imparare ad uscire dalla canoa capovolta; poi avrei avuto il permesso di andare in gita senza istruttore.
Avendo in mente la ruota del mulino a cui nel medioevo legavano i disgraziati da torturare; Simon Le Bon che nel video di Wild Boys era legato alla ruota che si è bloccata mente era sotto; Simon Le Bon che era rimasto sotto la sua barca quando gli si è rotta la chiglia; il giro di chiglia per i marinai insubordinati; e il waterboarding a Guantanamo…
Essendo claustrofobica; avendo una capacità polmonare pari a uno shottino; avendo l’incubo ricorrente in cui non riesco a salvare i miei figli dall’annegamento perché non so stare sott’acqua…
Capirete che con queste premesse capovolgermi in una canoa con le gambe imprigionate in un paraspruzzi di neoprene che devo staccare mentre sono a testa in giù, beh… non mi venga particolarmente naturale.
Mauro, il mio istruttore, era accanto a me. Mi ha detto “ti tengo le mani e lo facciamo piano piano”.
Non so cosa sia successo. Forse “piano piano” mi è sembrata una pessima idea: io volevo fare veloce veloce. Ho lasciato io le sue mani? Non ho preso fiato?
So che ero sotto, che non riuscivo ad orientarmi, ad uscire, a respirare. So che dentro di me gridavo PERCHÉ NON MI TIRA FUORI?!? PERCHÉ NON MI TIRA FUORI?!?
Non so quanto sia durato. Abbastanza per farmi pensare che stavo annegando davvero, perché non finiva mai e perché nessuno mi stava aiutando.
Quando ho finalmente avuto la faccia fuori dall’acqua avevo il cuore che batteva così forte che non riuscivo a respirare lo stesso.
Le prime parole sono state: non farlo mai più. Non farlo mai più. L’ho detto a Mauro, ma l’ho detto anche a me stessa.
Seduta su uno scoglio, tremando, con la gamba che era rimasta incastrata nel pozzetto che pulsava per il dolore, ho pianto con la faccia tra le mani.
Mauro era mortificato. Vedendo la mia reazione (evidentemente esagerata, visto che lui era accanto a me e non mi avrebbe fatto correre un vero pericolo), ha chiesto se avessi già rischiato di annegare.
Sì, due volte.
La prima, avevo circa 4 anni: stavo guardando la piscina dei nostri vicini, con una gran voglia di fare il bagno. Non avevo il permesso di stare lì senza supervisione, i grandi erano nel giardino sotto a prendere l’aperitivo come si faceva negli anni ’70: kaftani, crodini, olive.
E sono caduta dentro.
Mio zio deve aver notato la mia assenza, o forse ha sentito lo splash. So che da sott’acqua ho avvertito un tuffo e mi sono sentita pescare fuori. Mi ricordo sdraiata sul bordo della piscina, il vestito bagnato appiccicato addosso, la faccia sconvolta di mio zio che mi sgrida in inglese.
La seconda, avevo circa 8 anni: ero al mare, la “piscina dei piccoli” era vuota e fuori servizio perché dopo pranzo, negli anni ’70, i bambini non potevano fare il bagno e di conseguenza anche la bagnina faceva una pausa post-parmigiana di tre ore. Di nuovo, senza permesso, e con una gran voglia di stare in acqua, ho pensato di fare un esperimento e di mettermi i braccioli ai piedi per fare il morto senza fatica. Ironico, no?
Per chi non lo sapesse, se ti metti i braccioli ai piedi non c’è modo che tu possa tenere la faccia fuori dall’acqua: il corpo si inclina con la testa in giù, sbracciarsi non serve, tentare di sfilarli ti manda ancora più sotto. L’unica cosa che sta fuori dall’acqua sono i piedi.
Per fortuna, in quel vuoto pneumatico di un dopopranzo agostano, la bagnina è passata lì accanto, mi ha vista e mi ha pescata. Mia nonna mi sgridò: “Ma come, non lo sai che non si mettono i braccioli ai piedi?”. Ovviamente no, non ne parla mai nessuno – tranne me, che da allora faccio gruppi di autocoscienza-bracciolo con tutti i bambini che mi capitano a tiro.
“Aaah, ecco perché”, ha risposto Mauro. Che è buddista, e che sa di essere morto di freddo in una tundra, e annegato nella cambusa di una nave nelle sue vite precedenti, quindi capisce cosa ho provato.
Ora, se Mauro rinasce, sono contenta per lui. Davvero.
Io però, non lo voglio fare mai più, di annegare.
3° cosa – i dati
Non voglio nemmeno più andare in canoa.
Dopo un mese, l’ematoma sulla gamba è ancora duro e nodoso, tanto che non posso dormire sul fianco sinistro. Questo è il trauma visibile.
Per anni ho osservato le persone che sfilavano serene sul mare sotto casa, al tramonto d’estate e all’ora di pranzo in inverno, invidiando il fatto che erano sole, a pelo d’acqua, nel silenzio.
Adesso mi giro dall’altra parte quando mi affaccio alla finestra e vedo qualcuno che pagaia. Questo è il trauma invisibile.
A questi miei due traumi, uomini e donne hanno reagito in modo opposto.
Ho parlato dell’accaduto su Instagram, oltre che nella mia cerchia sociale, per cui ho un campione di diverse migliaia di persone sulla cui base ho elaborato una tesi.
Comincio dai dati (numeri arrotondati): 5000 persone hanno seguito le storie in cui mostravo l’ematoma, le foto di me felice in canoa il giorno prima del fattaccio brutto, e le mie considerazioni sull’opportunità di affrontare la paura e riprovare. Ho ricevuto 100 commenti.
Di questi, 99 erano di donne, e il tenore era “oh mio Dio ci fai preoccupare come stai sai è successo anche a me una cosa simile te la racconto so cosa si prova mi dispiace tantissimo prenditi il tempo che ti serve non forzarti ti mando un abbraccio ti mando un bacio poverina”.
Uno era dell’amico che ha fatto qualche lezione di canoa con me: l’emoji della faccina che ride a crepapelle.
Nella mia cerchia sociale, le donne mi hanno videochiamato, offerto tisane, si sono professate nemiche a vita dell’istruttore, hanno chiesto dettagli e dettagliatamente espresso le loro opinioni ed emozioni.
Gli uomini?
Sempre l’amico che aveva preso delle lezioni con me: “Ma non potevi semplicemente uscire dalla canoa e mollarla? Sei proprio bionda!”
Figlio primogenito: “Mi fai spaventare, fatti insegnare a girarti e allenati a rimetterti su! Non si va in mare senza sapere come tirarsi fuori! Bisogna farsi male con prudenza!”
Amico d’infanzia: “Spero tanto che con il tempo tu riesca a superare questo spiacevole incidente e che tu riesca a riapprocciarti a quello sport e magari che sia un motivo per superare la claustrofobia. Mi auguro che possa aiutarti magari anche parlarne con Guido che è uomo di mare.”
Guido, mio marito, ha in effetti ha affrontato l’argomento da uomo di mare, o meglio da ingegnere navale: “Passa a un altro circolo, dove abbiano canoe più aperte e più larghe, guarda questa ad esempio”. Una sera, ridendo, mi ha chiamato alla tv: “C’è una gara di kayaking, guarda come si ribaltano questi!”.
Insomma, quello che ha colpito le donne era l’aspetto psicologico dell’episodio. Gli uomini ci hanno visto un glitch da risolvere: impara meglio, cogli l’occasione per superarti, cambia l’attrezzatura.
Le donne hanno accolto quello che era successo come cosa fatta capo ha, con empatia.
Gli uomini lo hanno preso in mano per rigirarlo, smontarlo e trovare il modo di aggiustarlo, con distacco.
4° cosa – la tesi
Quando mio marito mi ha chiamato per farmi vedere la gente che si ribalta in canoa (ridendo, lo ripeto), sono rimasta scioccata.
Ho pensato: ma che davvero ho sposato una persona così insensibile?
E poi ho pensato ancora, tanto. E per non fare quella che reagisce, ma risponde, ne ho parlato con lui due settimane dopo.
In quei giorni (tipo Gesù nel deserto) ho riflettuto sui danni che il patriarcato infligge sugli uomini quanto sulle donne.
Se noi siamo state segregate al piano terra della società per millenni, imprigionate nel non poter imparare, non poter fare, non poter dire, non poter creare, non poter condurre, gli uomini sono altrettanto a lungo rimasti imprigionati al piano di sopra, condannati a dover fare e occuparsi di tutto e tutti, senza potersi permettere di aver paura, di essere inetti, stanchi, confusi, senza la libertà di poter cambiare idea.
Noi giù a fare i bambini e parlare tra noi – che altro potevamo fare?
Loro su a lavorare per mantenere noi e i bambini, senza parlare – che altro potevano fare?
La conseguenza è che le donne sanno tutto di emozioni: sanno come tirarle fuori, provarsele addosso, prestarle alle amiche, rammendarle, piegarle e rimetterle via. Hanno lauree e master e cattedre in empatia, mutuo soccorso, pettegolezzo, manipolazione.
Gli uomini non hanno mai praticato la lettura e la tassonomia delle loro emozioni, non hanno mai avuto lo spazio fisico e mentale per parlarne.
Quando ho finalmente affrontato il tema con mio marito, gli sono venuti gli occhi lucidi e gli è tremato il labbro. Avrebbe volentieri girato la faccia d’altra parte e cambiato discorso.
“Emozioni? Mi hanno insegnato che un uomo non ha emozioni, solo debolezze. E alla mia età, è troppo tardi per riprogrammarmi. Ma ho speranze per i nostri figli.”
Mi si è stretto il cuore. Io non voglio questo per lui, non lo voglio per i miei figli, per i miei amici, per nessuno. Quanto è stato negato ai giovani maschi? Questo sistema crudele per tutti, che ha cominciato a sgretolarsi grazie alle suffragette un secolo fa, solo ora vacilla dalle fondamenta perché il femminismo è la battaglia di tutti per tutti, che si spande attraverso le generazioni, verticalmente e orizzontalmente.
Prendiamo la nostra famiglia.
So che il nostro primogenito ha sentito molti discorsi patriarcali, soprattutto dai nonni; a 28 anni, ha la stessa angoscia di un 50enne di essere di default quello su cui dipenderà sempre la sua famiglia, quello che aggiusta le cose. E infatti mi ha scritto “Non si va in mare senza sapere come tirarsi fuori!” (non che abbia torto, eh).
Il nostro secondogenito, che ha sentito invece dibattere il patriarcato e da anni fa la dissezione dei suoi stati emotivi con il suo psicologo, è stato quello che mi ha chiesto come stavo quando sono tornata a casa post-quasi-annegamento, invece di dirmi cosa avrei dovuto fare. Ha unicamente chiesto del mio stato d’animo, senza definire le mie azioni.
Il nostro terzogenito sente parlare a tavola di patriarcato, di abilismo, di maschilismo, di omotrasfobia, ma il suo ambiente è così diverso da quello in cui siamo cresciuti noi genitori (e in parte i suoi fratelli), che quando gli presentiamo questi argomenti, si sorprende che esistano tali fenomeni sociali.
Siamo la stessa famiglia, ma ci siamo evoluti tantissimo nell’arco di 28 anni.
L’empatia, insomma, si impara: si scopre che esiste, si studia (letteralmente le cose da dire e le cose da non dire), si allena. Nel gergo dei terapeuti, si chiama “alfabetizzazione emotiva” ed è #labaseproprio del benessere personale di ciascuno di noi.
Attenzione: non sto sottovalutando il peso della personalità di ogni individuo. So benissimo che il nostro vissuto è determinato dalla nostra natura quanto dall’ambiente in cui cresciamo (come dicono gli inglesi, nature and nurture).
Sto sostenendo la tesi che se gestiamo la parte di nutrimento in modo che tutte le emozioni, tutti i bisogni, tutte le inclinazioni abbiano lo stesso diritto di cittadinanza per tutte le persone, creeremo per certo un’umanità più matura, più funzionale e soprattutto più felice.
Dove sarà normale che un’ingegnera mi progetti una canoa-antipanico e un ingegnere mi racconti come si senta all’idea che poteva rimanere vedovo.
5° cosa – è finito così, con Federico
Mi chiamo Federico.
Non riesco a respirare.
Mamma, mamma.
Da un balcone una donna sentì la sua voce disperata chiamare aiuto, mentre in 4 lo pestavano fino a spaccargli la testa, lo sterno, i polmoni, i testicoli. Fino a spaccargli i manganelli addosso.
Aveva 18 anni, era solo, non aveva armi o droga addosso, stava tornando a casa attraversando il parco della sua città. Per il giudice è stato “ucciso senza motivo”.
Sono passati 16 anni da quel 25 settembre, ci sono stati i depistaggi, i poliziotti che manifestano in solidarietà con i colleghi assassini sotto l’ufficio di sua madre, Salvini che dichiara che sta dalla loro parte, Giovanardi che dice che nella foto di lui cadavere la sua testa è appoggiata su un cuscino rosso, i quattro assassini intercettati che lo definiscono “cucciolo di cagna”, i quattro che nonostante la condanna a 3 anni e 6 mesi (e l’indulto) ancora portano la divisa e “servono” la nostra comunità.
Io lo so che in ogni consesso c’è una percentuale fisiologica di cretini, di incompetenti, di stronzi. In qualche consesso, forse in molti, sono io a coprire quella quota.
Io lo so che la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine lavora con coscienza, coraggio e spirito di sacrificio.
Ma io so anche che c’è un consesso in cui i cretini, gli incompetenti e gli stronzi non devono avere quote: quello della giustizia.
Come nazione abbiamo un debito insaldabile nei confronti di Federico Aldrovandi e della sua famiglia.
Io non dimentico. Penso sempre a questo ragazzo, che poteva essere uno dei miei figli. Che ancora potrebbe essere uno dei miei figli.